21/03/2020
Al lavoro vado a piedi. Per farlo porto con me un lasciapassare che indica l’indirizzo del luogo di destinazione, oltre a quello di residenza. Ci sono scritti anche gli orari di inizio e di fine e la mia mansione. Passeggiare liberamente per strada non è permesso. Questi passi che compio per raggiungere il lavoro non sono certo spensierati e liberi. Piuttosto sono decisi, a volte pesanti. Attraverso Corso Buenos Aires, poi Loreto, Via Andrea Costa, Via Casoretto. Vorrei fosse più piacevole incrociare altre persone per strada invece sono spinto a evitarle. Trattengo qualche volta il fiato per non respirare. Gesti che sono una quarantena di sé. Giungo al lavoro. La prassi vuole che mi misuri la febbre prima di entrare in servizio, che mi cambi gli abiti, che indossi guanti e mascherina e che mi sanifichi le mani ogni volta che entro in contatto con oggetti di uso comune: penne, maniglie, sedie, telefoni, tastiere, abiti, tutto.

La psichiatria è delicata ogni giorno, gli animi fragili, le prossimità più importanti delle parole. Perché siamo chiusi dentro? Perché mangiamo separati? Perché le mascherine? Gli equilibri precari, gli umori ballerini. Il bollettino delle 18.00 riporta drammaticamente allo strano presente che stiamo vivendo mentre, dai balconi di fronte, persone annoiate dalla reclusione forzata intonano l’inno nazionale e canzoni di dubbio gusto. È un canto liberatorio ma che a volte stona. Preferirei un minuto di silenzio per onorare i morti.
Lavoro dignitosamente cercando di mantenere un equilibrio nella marea di stati d’animo che si alternano repentinamente. L’attenzione richiesta consuma molta energia. Alle 21.00 termino il mio servizio, elimino le protezioni, igienizzo ancora una volta le mani ormai secche e arrossate ed esco dal portone di ferro. Mi incammino, nell’aria tersa della sera, verso casa.
Sono passi liberati questi. Passi furtivi che si insinuano nei vicoli scuri e silenziosi e si perdono negli spazi aperti, nelle piazze, negli incroci di rotaie e cavi e nei vuoti dei viali più grandi.

Le vetrine di Corso Buenos Aires, ancora lucide e con i volti di modelli perfetti e sorridenti, appaiono fuori luogo in questo nuovo presente. Il design, la moda, le linee grafiche accattivanti. Banner pubblicitari grandi come palazzi ricoprono le facciate in restauro. Promuovono concerti che non avranno mai luogo. Paesaggi anacronistici. Le strade raccontano del mondo che era fino a qualche giorno fa e di quello che è adesso. Piccole candele accese sui bordi di qualche finestra contengono tutte le speranze possibili e rivelano dimensioni piene di un’umanità riservata e nascosta tra le mura di casa.
È nei momenti straordinari che emerge la nostra natura più profonda. Non nella confortante normalità dove è facile nascondersi e non esistere. E’ adesso il momento di dare il meglio. Arriverà domani e sarà fatto di oggi. Dovrà per forza essere un luogo migliore e sicuramente lo sarà. Teniamo duro.
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